lunedì 30 giugno 2008

MUSICA PER I TUOI OCCHI

ATTENZIONE: QUESTO POST È STATO RETTIFICATO QUI.

Esiste dunque una musica che può essere suonata nell’acqua.
Jean Louis Schefer (a proposito di un fotogramma di Charlot soldato, Charlie Chaplin, 1919), L’uomo comune del cinema (traduzione di Michele Canosa), Quodlibet, Macerata 2006, p. 59.

Ti sei stufato di andare al cinema, eh? E allora sai che ti dico? Vai in discoteca!
Ealcinemavaccitu è moderatamente orgoglioso di presentarti uno spin-off sonoro, ad opera dell'oscuro e dispettoso e atrabiliare dottor Stenelo: eindiscotecavaccitu.



Il pilota della serie è dedicato alle colonne sonore; i prossimi ed eventuali episodi potrebbero non rispettare la trita regola della critica cinematografica. Il dottor Stenelo considera infatti che l'abuso di aggettivi quale "rigoroso" e "coerente" sia dannoso per la salute e produca un calo della potenza sessuale (sostiene che la sua teoria sia confermata da numerosi studi statistici, ma si ostina a non rivelare le fonti).



Cionondimeno e conciossiacosaquandofosseché, supercazzolando come il servo del cugino spagnolo di Big Jim Slade, il quadro non è tondo e i nodi tecnici di Stenelo vengono a galla: cosa gli costava, ad esempio, ricordare che "Hooray for Hollywood" accompagna i titoli di coda de Il lungo addio? perché tralasciare il fatto che "Moonlight Fiesta" viene sparato da una radiolina all'inizio de Il fascino del delitto, cogliendo così l'occasione di notare che il titolo italiano del film è imbecille e che in origine si chiama Série noire? perché correre il folle rischio di affermare che Boby Lapointe canta "Framboise" in Tirate sul pianista, quando anche un topolino cieco a passeggio con Ludwig van sordo potrà rimproverare a Stenelo che nel film di Truffe si ascolta una versione assai più sincopata? Ah, saperlo…

 

Al momento, l'unica confessione che son riuscito a strappare di bocca a Stenelo (gliel'ho estratta col forcipe mentre sbadigliava, Stenelo infatti "ferait volontiers de la terre un débris / et dans un bâillement avalerait le monde") è che d'ora in poi potrete smammare da qui e andare in discoteca quando vi pare e piace. Basta cliccare sulla radio in ciliegio di Chigurh eindiscotecavaccitu, situata in cima a destra. E poi Stenelo ha aggiunto, deitticamente: "Spero che dopo essere andati lì, non torneranno più qui".
Io odio Stenelo.

domenica 29 giugno 2008

L'ultimo gioco in città (LE SCOMMESSE SONO CHIUSE)

IV — QUELLA MACCHINA LÀ DEVI METTERLA QUA.

Le automobili, con la loro accelerazione, potrebbero rappresentare un passo indietro della civiltà. Forse non aggiungeranno nulla alla bellezza del mondo o alla vita spirituale degli uomini. Non lo so. Ma le automobili sono arrivate. E quasi tutto apparirà diverso a causa di quel che portano. Cambieranno la guerra, e cambieranno la pace. E anche la mente umana cambierà a causa delle automobili.
L'inventore di "carrozze senza cavalli" Eugene Morgan (Joseph Cotten) in L'orgoglio degli Amberson (The Magnificent Ambersons, 1942) di Orson Welles.


Come annunciato dal Club Méditerranée, oggi la soluzione de L'ULTIMO GIOCO IN CITTÀ™ doveva essere ricompensata con una misera conchiglia. Ma sarò generosamente perverso: ho tolto il suono dal filmato, è vero, ma chi indovinerà il titolo avrà mezza conchiglia in più. Godi, popolo! Poi, mercoledì, se nessuno avrà trovato prima, forse ripristinerò il sonoro. Solo che da quel momento la mezza conchiglia in più me la tengo tutta per me.
P.S.: Ricordo che le regole de L'ULTIMO GIOCO IN CITTÀ™ sono depositate presso il tabellione e possono essere consultate qui. Continuo inoltre a non poter dimenticare che il gioco si svolge anche su un altro tavolo.



ATTENZIONE: LA PARTITA SI È CONCLUSA MARTEDÌ 1° LUGLIO ALLE 12.22.
IL VINCITORE È ANCORA UNA VOLTA IL FELINO ARCOMANNO, CHE AGGIUDICANDOSI UNA CONCHIGLIA IN MEZZO SI RITROVA IN CIMA ALLA CLASSIFICA. QUASI UNA POLE POSITION PER LA PROSSIMA SFIDA, CHE SI TERRÀ DOMENICA SETTE SETTEMBRE (IL GIOCO VA IN FERIE; IL BLOG NON ANCORA: ISTRUZIONI A VENIRE) E PERMETTERÀ AL VINCITORE DI AGGIUDICARSI UN PAIO DI CORONE D'ORO. NELL'ATTESA, GODITI IL FILMATO CON LA COLONNA SONORA E NON DIMENTICARTI DI METTERE LA MACCHINA LÀ. ANZI QUA. INSOMMA METTILA DA QUALCHE PARTE O TORNA ALLA SCUOLA GUIDA, CHE VUOI CHE TI DICA.

L'ULTIMO GIOCO IN CITTÀ.
GRADUATORIA
arcomanno: 3 conchiglie.
andrea: 2 conchiglie.
adlimina: 1 conchiglia.

giovedì 26 giugno 2008

Saldi d'estate: Leggiti un Aleph e guardane tre!

Vidi il popoloso mare, vidi l’alba e la sera, vidi le moltitudini d’America, vidi un’argentea ragnatela al centro d’una nera piramide, vidi un labirinto spezzato (era Londra), vidi infiniti occhi vicini che si fissavano in me come in uno specchio, vidi tutti gli specchi del pianeta e nessuno mi rifletté, vidi in un cortile interno di via Soler le stesse mattonelle che trent’anni prima avevo viste nell’andito di una casa di calle Fray Bentos, vidi grappoli, neve, tabacco, vene di metallo, vapor d’acqua, vidi convessi deserti equatoriali e ciascuno dei loro granelli di sabbia, vidi ad Inverness una donna che non dimenticherò, vidi la violenta chioma, l’altero corpo, vidi un tumore nel petto, vidi un cerchio di terra secca in un sentiero, dove prima era un albero, vidi in una casa di Adrogué un esemplare della prima versione inglese di Plinio, quella di Philemon Holland, vidi contemporaneamente ogni lettera di ogni pagina (bambino, solevo meravigliarmi che le lettere di un volume chiuso non si mescolassero e perdessero durante la notte), vidi insieme il giorno e la notte di quel giorno, vidi un tramonto a Querétaro che sembrava riflettere il colore di una rosa nel Bengala, vidi la mia stanza da letto vuota, vidi in un gabinetto di Alkmaar un globo terracqueo posto tra due specchi che lo moltiplicano senza fine, vidi cavalli dalla criniera al vento, su una spiaggia del mar Caspio all’alba, vidi la delicata ossatura d’una mano, vidi i sopravvissuti a una battaglia in atto di mandare cartoline, vidi in una vetrina di Mirzapur un mazzo di carte spagnolo, vidi le ombre oblique di alcune felci sul pavimento di una serra, vidi tigri, stantuffi, bisonti, mareggiate ed eserciti, vidi tutte le formiche che esistono sulla terra, vidi un astrolabio persiano, vidi in un cassetto della scrivania (e la calligrafia mi fece tremare) lettere impudiche, incredibili, precise, che Beatriz aveva dirette a Carlos Argentino, vidi un’adorata tomba alla Chacarita, vidi il resto atroce di quanto deliziosamente era stata Beatriz Viterbo, vidi la circolazione del mio oscuro sangue, vidi il meccanismo dell’amore e la modificazione della morte, vidi l’Aleph, da tutti i punti, vidi nell’Aleph la terra e nella terra di nuovo l’Aleph e nell’Aleph la terra, vidi il mio volto e le mie viscere, vidi il tuo volto, e provai vertigine e piansi, perché i miei occhi avevano visto l’oggetto segreto e supposto, il cui nome usurpano gli uomini, ma che nessun uomo ha contemplato: l’inconcepibile universo.

Jorge Luis Borges, L’Aleph.






lunedì 23 giugno 2008

Orson Welles — Un fogliettone

III
1939—1941: POTERE ASSOLUTO


La mia carriera è iniziata con un falso, l’invasione dei marziani.
Sarei dovuto andare in prigione.
Non posso lamentarmi.
Sono finito a Hollywood.
Orson Welles in F for fake-Verità e menzogna (Orson Welles, 1974).


Nell’estate del 1939 la casa di produzione RKO riuscì ad ammaliare il giovane prodigio, proponendogli un contratto unico nella storia di Hollywood, che gli permetterà di produrre, realizzare, interpretare e montare il suo primo film in condizioni di libertà totale. Welles aveva solo ventiquattro anni e nessuna esperienza cinematografica: mai un regista era riuscito a ottenere tanto, e forse la professione non gli perdonò una simile fortuna.
Tra i progetti presi in considerazione da Welles e accantonati, il più serio fu un adattamento di Cuore di tenebra, tratto dal racconto di Joseph Conrad. Memore dell’esperienza radiofonica, Welles avrebbe interpretato Kurtz, ma anche il narratore, Marlow. Il film doveva essere girato interamente in soggettiva, dal punto di vista di Marlow, che lo spettatore avrebbe intravisto solo grazie a giochi di riflesso. Il procedimento era del tutto innovativo, ma un po’ laborioso; anni dopo verrà attuato da Robert Montgomery in Lady in the Lake (1947; La donna nel lago), applicandolo al personaggio del chandleriano detective — nomen omen — Philip Marlowe. Cuore di tenebra diventerà il primo titolo della lunga filmografia fantasma di Welles.

Orson Welles lavora al trattamento di Cuore di tenebra.
Dietro di lui, l'enigmatica equazione tra il disegno di un occhio e la lettera "i".
Traducendo "i" con "io", si ottiene una metafora della soggettiva cinematografica.

Nel febbraio del 1940 Welles assunse Herman J. Mankiewicz come co-sceneggiatore: il suo primo film avrebbe raccontato la storia di un magnate della stampa. Si intitolava Orson Welles* 1, più tardi mutato in American: uscì il 1° maggio 1941 al Palace Theatre di New York con il titolo Citizen Kane. La critica era pronta a stroncare la presunzione giovanile del regista, ma il film fu giudicato un capolavoro da quasi tutti, e nel complesso il pubblico lo accolse trionfalmente.
Ciononostante, Quarto potere fu un fiasco colossale. La ragione è nota: nel narrare la vita di Charles Foster Kane, dall’infanzia alla morte, Welles e Mankiewicz si erano parzialmente e impudicamente ispirati alla figura di un magnate dell’epoca, William Randolph Hearst, poco sensibile alle sottili distinzioni tra verità e finzione, e tanto potente quanto permaloso. Dopo aver cercato di ostacolare le riprese, Hearst affidò alla sua regina dei pettegolezzi, Louella Parsons, il compito di orchestrare una campagna stampa violentissima (mentre Welles era difeso dalla rivale Hedda Hopper), e tentò persino di riacquistare il negativo per bruciarlo. Il film fu girato, ma in fin dei conti, tanta ostile perseveranza ottenne l’effetto desiderato: la RKO fu intimorita dalle pressioni di Hearst, che possedeva molte sale disseminate nel paese. Le minacce e i ricatti fecero cedere i distributori indipendenti, che preferirono non proiettare il film. Malgrado i plausi di critica e pubblico, Hearst riuscì così a distruggere il destino commerciale di Quarto potere. Il film ottenne nove nominazioni all’Oscar (comprese quelle per miglior film, miglior regista e miglior attore) e ne ricevette uno soltanto, condiviso con Mankiewicz, per la migliore sceneggiatura originale. In Europa le cose non andarono meglio. A causa della guerra, il film uscì quando il potere di Welles era ormai in rovina: in Francia, nel 1946 (dove fu stroncato da Jean-Paul Sartre, ma colpì André Bazin e una manciata di giovanissimi spettatori, che anni dopo lo osannarono nei “Cahiers du Cinéma” prima di diventare protagonisti della Nouvelle Vague); in Italia, nel 1948.


Quarto potere è la storia dell’inchiesta condotta da un uomo chiamato Thompson, redattore di un cinegiornale […], sul significato delle ultime parole di Kane morente. […] Reputa che le parole di un moribondo possano spiegare la sua vita. Forse è vero. Non scoprirà mai cosa intendesse Kane, ma gli spettatori sì. Le sue ricerche lo portano da cinque persone che conoscevano bene Kane — che gli volevano bene o lo amavano o lo odiavano a morte. Narrano cinque storie diverse, ciascuna parziale, di modo che la verità su Kane, così come la verità su ogni uomo, non può essere che il risultato della somma di tutto ciò che è stato raccontato su di lui.
Kane, ci viene detto, amava solo sua madre, solo il suo quotidiano, solo la sua seconda moglie, solo se stesso. Forse amava tutto ciò, forse nulla. Sta agli spettatori giudicare. Kane era egoista e disinteressato, un idealista, una canaglia, un uomo grandissimo e piccolissimo. Dipende da chi parla di lui. Non viene mai giudicato con obiettività, e lo scopo del film non è tanto la soluzione del problema quanto la sua presentazione.”
Sono parole dello stesso Welles, in un testo pubblicato il 14 febbraio 1941 su “Friday” e intitolato “Citizen Kane Is Not About Louella Parson’s Boss”.

È impossibile riassumere in poche righe l’importanza storica e artistica di Quarto potere. Dire che è in assoluto il film che maggiormente influenzò i registi a venire è insufficiente. Sarebbe più esatto affermare che è tuttora inammissibile che un cineasta possa debuttare senza averlo visto almeno una volta. In meno di due ore, Welles sconvolge la struttura narrativa, i tempi del racconto, le tecniche di ripresa e il montaggio. La trama inizia con la morte del protagonista interpretato dallo stesso Welles, e procede a ritroso in modo frammentario, seguendo le testimonianze raccolte da un giornalista alla ricerca del significato dell’ultima parola pronunciata da Kane: “Rosebud”.


Ma è chiaro che la parola misteriosa è solo un pretesto per raccontare settant’anni di storia americana attraverso lo specchio deformante di un personaggio emblematico e contraddittorio, di cui nulla viene nascosto allo sguardo e alle orecchie, in un incrociarsi solo apparentemente caotico di opinioni, aneddoti, falsi cinegiornali e pettegolezzi che percorrono (e spesso ripercorrono, modificando l’angolatura) tutti i lati possibili della personalità di Kane, grazie a una macchina da presa tanto indiscreta quanto onnipotente, capace di sfidare le leggi spazio-temporali, e di giudicare con la semplice forza dell’obiettivo. Si è parlato molto dei numerosi prodigi tecnici del film: della fotografia di Gregg Toland, dell’uso di obiettivi ideati per l’occasione, che deformano la prospettiva esaltando una profondità di campo dove ogni dettaglio, dal primo piano allo sfondo, è ugualmente a fuoco in lunghi e complicatissimi piani sequenza; dei soffitti costruiti appositamente nei teatri di posa e valorizzati da audacissime angolature dal basso, miranti a restituire la megalomania di Kane e insieme a “schiacciarla”; di una colonna sonora ricchissima, memore delle sperimentazioni radiofoniche e splendidamente accompagnata dalle musiche di Bernard Herrmann. Gli storici hanno ormai provato ampiamente che ognuno di questi aspetti, preso singolarmente, aveva conosciuto precedenti nella storia del cinema. A rivedere Quarto potere, oggi la vera violazione delle regole cinematografiche allora vigenti sembra nascondersi nell’insieme del film, e più particolarmente nella palese intrusione della macchina da presa come vero protagonista, entità divina mossa da un’ambizione smisurata (e segretamente consapevole del proprio inevitabile scacco): raccontare la vita di un uomo.
Nelle ultime immagini, Welles disvelerà, per il solo spettatore e per un attimo appena, la “verità”, prima che le fiamme di un gigantesco forno la divorino, e forse il celebre finale (secondo molti attribuibile a Mankiewicz) è l’unica caduta di tono del film. Ma in fondo, persino quest’informazione riservata non era che un tassello sconnesso del puzzle: che Rosebud fosse lo slittino d’infanzia del magnate non è poi determinante, ai fini della storia. Chi fosse, realmente, Charles Foster Kane, non lo sapremo mai. Forse nulla, come suggerisce il fumo nero sprigionato dal forno nell’ultima immagine.


(CONTINUA...)

domenica 22 giugno 2008

L'ultimo gioco in città (LE SCOMMESSE SONO CHIUSE)

III — IL RAPPORTO DIPLOMATICO DI DON MICCIO

Nella politica italiana c’è un clima più costruttivo.
Bugs Bunny a John Wayne in Little Blues (Stenelo Kautzsch, 2008).


Come annunciato dalla stampa internazionale, oggi la soluzione de L'ULTIMO GIOCO IN CITTÀ™ varrà un ducato e mezzo. Non un ducato di più, perché chi ha visto il film dovrebbe riconoscerlo al volo. Quindi stavolta la rapidità nell'azzeccare la risposta sarà davvero determinante.
P.S.: Ricordo che le regole de L'ULTIMO GIOCO IN CITTÀ™ sono depositate presso l'azzeccagarbugli e possono essere consultate qui. Ricordo inoltre con acidità di stomaco che il gioco si svolge anche su un altro tavolo.





ATTENZIONE: LA PARTITA SI È CONCLUSA GIOVEDÌ 26 GIUGNO ALLE 12.22.
IL VINCITORE È ARCOMANNO.
HA RICEVUTO UN AIUTO DALL'ALTRO TAVOLO, E QUINDI MERITEREBBE UN SOLO DUCATO. MA DATO CHE GLI DEVO UN AGGIORNAMENTO ESSENZIALE, DALL'ALTO DEL MIO SCRANNO SARÒ MAGNANIMO. IL MIO REGNO È SICURO, NON TEME GLI ANARCHICI.


L'ULTIMO GIOCO IN CITTÀ.
GRADUATORIA
andrea: 2 ducati.
arcomanno: 1 ducato e mezzo.
adlimina: 1 ducato.

DOMENICA, LA SOLUZIONE DEL PROSSIMO GIOCO VARRÀ UNA CONCHIGLIA DEL CLUB MEDITERRANEE. VI ASPETTO SALUTANDOVI CON UN GIROTONDO.


giovedì 19 giugno 2008

Bistecche 3

La mia coscienza vuole la vittoria dei vegetariani nel mondo, e il mio subconscio langue per una fetta di carne saporita. Io che cosa voglio?
Lo Scrittore (Anatolij Solonitsyn) in Stalker (Andrej Tarkovskij, 1979).

lunedì 16 giugno 2008

Datti all'ippica (Spam Rap)

Maintenant, je m'encrapule le plus possible.
Arthur Rimbaud, lettera a Georges Izambard, Charleville, 13 maggio 1871.

— Il mio è più grosso.
— Prego?
— Il mio cetriolo è più grosso.
Eric Stratton detto “Otter” (Tim Matheson) e la signora Marion Wormer (Verna Bloom)
al reparto frutta e verdura del supermercato in Animal House (John Landis, 1978).


E lì, ahimè, pippe.
Alberto Arbasino, Specchio delle mie brame, Einaudi, Torino 1974, p. 40.


ti basta… una… serva? eh? dopo questo trattamento riuscirai a riempire tutto il suo canale d'amore con il tuo pezzo di carne! ALL ANAL NO BULLSHIT! scusi che ore sono? e comprati un ROLEX! alessiamarcuzzi sonia braga sorca lella tutte nude come non le hai viste mai! ce l'hai 'na sigaretta? 2euro per winston pack! tutti i dvd di stan lubrick director's cazz! dolce & gabbana gucci hermes per tua moglie furiosa per la tua impotenza viagra cialis e poi sesso con vecchie troie mature culi rotti più arrapati dell'universo penis enlargement da due centimetri a tre metri che ne dici!!! basta e avanza… una serva basta e avanza... ce la fai o no? in quindici minuti ce la fai con cialis e ti ritrovi un randello per 36 ore! leggi migliaia di testimonianze risultati permanenti! lei si bagna istantaneamente e tu te ne freghi perché tanto ti protegge l'impermeabile armani prada chanel e sennò c'è il garzone del fornaio e quand'anche costui durasse poco c'è il fornaio in persona che non si muove e lì rimane e si fa venire in bocca ingoiando le tette di melitatoniolo mara carfagna pari opportunità per il tuo pistolino scopi per ore cronometrati sto cazzo col ROLEX! se prima avevo problemi a venire quando facevamo l'amore cionondimeno conciosiacosaquandofosseché l'affare non è duro ma da quando Paul ha guadagnato due centimetri in soli 20 anni mi dà delle sensazioni proprio meravigliose all'ombra dei cipressi e dentro il culo! miliardi di donne che lo prendono nel culo donne famose video zoccole e mocassini armani gratis! vergini disabili per te per me per tutti! massimizza le dimensioni della tua bacchetta magica d'amore con la nostra formula pensata solo per te! se parigi ciavesse lu mere mi' nonna ciaveva le rote e allora viagra prezzi stracciati! partecipa al gioco SFONDA LA NANA! anche tu puoi farlo smettila di sognare e agisci! le dimensioni contano e cialis fa la forza! vuoi un passaggio? comprati una PORSCHE e non rompere il cazzo a chi lo ficca davanti di dietro e di lato! 10 cose da fare al tuo amante nel tuo ordine preferito e senza rete! prendi il tuo rametto e trasformalo in una stecca di marlboro 2 euro e passa la paura! tutte le più zozze puttanacce del creato cadranno ai tuoi piedi se solo calzano scarpe versace! se ce l'hai piccolo come un pischelletto prendi questo supplemento magico o sparati una sega con i ditini inanellati da cartier mentre strizzando senza pietà le grosse poppe d'alabastro di elisabettagregoraci lei sul più bello ti

Ah, be', però…

Tu mi devi scusare, caro lettore. Ma il fatto è che a parte te, ho scoperto che le uniche persone che capitano da queste parti ci arrivano dopo aver chiesto ai motori di ricerca "foto Milena Busi". Così, mi son detto che era ora di incrementare il numero dei visitatori. Segue un filmato hardcore di quelli tosti. Ti consiglio di allontanare i bambini.



P.S.: Purtroppo al 30° secondo, nel momento più "ultimo tango a Parigi" del filmato, i sottotitoli italiani faticano a seguire il galoppo.

domenica 15 giugno 2008

L'ultimo gioco in città (LE SCOMMESSE SONO CHIUSE)

II — THE REAR PAGE

— Non so più che cazzo pensare, Cippa.
— Allora mettilo giù in bella e fattelo pubblicare da qualche parte.
ALTAN

Oggi è il grande giorno. Oggi è il TUO giorno. E quindi un giorno da cani, perché se domenica scorsa la soluzione era in quella siepe, e l'orizzonte a portata di mano, stavolta ti toccherà immaginare lo spazio di là da quella.
Un dettaglio, insomma: e 2 talenti per chi trova il titolo del film. Neppure il fotogramma intero. Per la zoomata, se proprio non jaafai, ti toccherà aspettare mercoledì. Ma non ti conviene: perché allora ti sarà elargito 1 solo, misero talento: non ci compreresti neppure il giornale.
Dettaglio ed eventuale futuro fotogramma intero sono di qualità mediocre. È il mio omaggio ai libri d'arte dei Fratelli Fabbri.
P.S.: Ricordo che le regole de L'ULTIMO GIOCO IN CITTÀ sono depositate presso il notaio e possono essere consultate qui. Ricordo inoltre con rammarico che il gioco si svolge anche su un altro tavolo.


ATTENZIONE: LA PARTITA SI È CONCLUSA LUNEDÌ 16 GIUGNO ALLE 17.04.
IL VINCITORE È ANDREA.

SE NESSUNO AVESSE TROVATO, MERCOLEDÌ SAREBBE APPARSO JIM:


L'ULTIMO GIOCO IN CITTÀ.
GRADUATORIA
andrea: 2 talenti.
adlimina: 1 talento.

DOMENICA, LA SOLUZIONE DEL PROSSIMO GIOCO VARRÀ UN DUCATO E MEZZO.

AGGIORNAMENTO DEL 25-06-08: arcomanno ha scoperto che l’articolo, rivolto al governo, era firmato dal direttore del settimanale e padre di Jean Vigo, l’anarchico Eugène Bonaventure de Vigo, noto con lo pseudonimo di Miguel Almereyda, che Wikipedia legge come un anagramma di “Y a la merde”. Non lo sapevo, ma ora aggiungo che in Zero in condotta, 1933, Jean Vigo mette la battuta in bocca all’alunno Tabard. Convocato dal preside, non trova altro da dire che: “Monsieur le Professeur, je vous dis merde!”. Nel 1968, sotto altri tempi, sotto altre rivolte studentesche, Antoine Doinel alias Jean-Pierre Léaud si innamora di Fabienne Tabard alias Delphine Seyrig: Baci rubati.

sabato 14 giugno 2008

Post-it: il countdown è iniziato!

Sapeva che il conto alla rovescia l’ho inventato io? Tutto cominciò da un’esigenza fondamentale emersa durante le riprese de La donna nella luna (1929). Quando girai il decollo, dissi: “Se conto uno, due, tre, quattro, dieci, cinquanta, cento — il pubblico non saprà quando decollerà. Ma se conto alla rovescia — dieci, nove, otto, sette, sei, cinque, quattro, tre, due, uno, ZERO! — allora lo saprà. Così creai il conto alla rovescia.
Fritz Lang intervistato da Peter Bogdanovich ne Il cinema secondo Fritz Lang, Pratiche Editrice, Parma 1988, p. 22.


Ricordiamo a tutti che domani, se non avete capito una minchia alla Messa in aramaico, vi aspettano ben altri rompicapi.
Come promesso pubblicamente, domenica verrà riaperto, delizia delle masse e croce del potere, L'ULTIMO GIOCO IN CITTÀ.
Attenti alla ressa davanti al botteghino, per accedere al tavolo da gioco rischiate di dover camminare sui corpi di donne e bambini (a conferma che le gioie non arrivano mai sole). Tanto più che il quiz di domani all'inizio varrà 2 (dico due!) talenti (dico talenti!).
Per chi avesse studiato male la règle du jeu, potrà ripassare da qui.
Grazie a tutti.
P.S.: A scanso di equivoci, la mia vita non è un orgasmo continuo. A volte anche a me tocca adottare scomode e umilianti posizioni. Come il dover ricordare che purtroppo il gioco si svolge in contemporanea in un'altra squallida bisca.

giovedì 12 giugno 2008

"Cinespia!" investiga l'investigatore! Rivelazioni scottanti! Molto hush-hush!

— La solitudine l’ha inasprito, Marlowe. Ha mai voluto bene a qualcuno?
— Una volta. La sposai, ma era troppo tardi. Non ha funzionato.
Conversazione telefonica tra Stan Laurel e Philip Marlowe, intercettata nel 1964 da John Edgar Hoover e archiviata da Osvaldo Soriano in Triste, solitario y final, Ediciones Corregidor, Buenos Aires 1973.

— Lei ha figli, signor Marlow?
— La prego, si ricordi di scrivere Marlowe, con la e, altrimenti i suoi lettori mi confondono con un marinaio. Marmocchi? Per carità! Sarei stato un pessimo padre: mi ci vede a cambiare i pannolini e cantare "Fate la nanna coscine di pollo"? Però se mi passa quel barattolo di lucido da scarpe nero posso cantarle "Swanee".

— Prego, scusi?

— "Swanee"… Ma già, lei è giovane, non ha ancora sentito niente, Al Jolson non sa nemmeno chi sia.

— Dicevamo dei figli, Marlow...

— Marlowe. Be', un tempo ho avuto un gatto. Ma mi ha tradito con una coniglietta. Non che me la sia presa, intendiamoci.

— In che senso non se l'è presa?

— Be', insomma, lei mi capisce, it's okay with me, ecco.

— Questa mi sembra di averla già sentita.

— Stia a sentire, amico, non me ne importa niente se l'ha già sentita o no, io l'ho detta comunque. E ora se ne vada al diavolo, mi lasci solo, lei mi ha fatto solo venire un grande sonno, giovanotto.

L'anziano Philip Marlow, intervistato dall'inviato speciale di "Cinespia!" Stenelo Kautzsch il 9 giugno 2008 al reparto geriatrico dell'Hospital Angeles (Tijuana).

Non c'è che dire, cari lettori. Incrociando questi due documenti è chiaro che qualcosa non torna. La confusione del vecchio investigatore privato tra un bambino e un animale domestico è l'indizio che gatta ci cova, se possiamo permetterci il gioco di parole. La senilità non spiega tutto, soprattutto se confrontiamo le parole di Marlowe con due reperti audiovisivi che siamo riusciti a procurarci secondo i soliti metodi, ben noti ai fedeli lettori della nostra infallibile rivista (parlano da sé i 754 processi in diffamazione, tutti vinti da noi). In questo filmato, ad esempio, vediamo un già non più giovane Marlowe sdegnare la duplice opportunità di un matrimonio onesto e non privo di interessanti risvolti economici. Guardiamolo mentre il padre delle due pretendenti lo mette generosamente in guardia, premonitore:



Ma il matrimonio non s'aveva da fare, chiaramente, e in nome di un "desiderio d'indipendenza" tanto assurdo quanto malriposto, il nostro sprecherà gli anni più belli in vagabondaggi notturni per squallidi supermercati, in cerca di quel senso dell'esistenza che l'uomo di ieri e di oggi può trovare solo nell'ambito di una sana vita domestica, tra l'affetto e la consolazione di una moglie fedele e la luminosa speranza delle nuove generazioni:



Come andò a finire, cari lettori, ormai lo sanno anche i topi (per tacer dei gatti! se ci è concessa una punta di leggerezza umoristica). Un matrimonio tardivo, con una donna di facili costumi (troppo, troppo giovane; e troppo, troppo ricca!), ed è subito crisi, con l'inevitabile separazione, e quindi il divorzio: un copione fatale. Durò appena qualche mese, l'unione tra Philip e Linda Loring. Troppo poco per far venire alla luce un piccolo Marlowe. Troppo poco? È tutto da vedere! E noi di "Cinespia!" abbiamo visto e sentito tutto. Spulciando gli archivi dell'ospedale pubblico di Poodle Springs, siamo riusciti a rintracciare un certificato di nascita risalente al 1953 (sì, ahimé, cari lettori, avete già capito, si tratta di una paternità precedente il matrimonio vero e proprio, ma noi non siamo qui per giudicare e ci atteniamo ai fatti, senza omettere nulla). Una povera creatura senza nome, abbandonata senza neppure offrirle la salvezza del battesimo da tali "Mr. P.M." e "Miss L.L." (come risulta dal suddetto certificato).
Ma dopo molte ricerche "Cinespia!" ha ritrovato per voi le tracce del figlio di Marlowe! È lui, senz'ombra di dubbio. Distrutto dalle vicissitudini e dai vizi, privato dell'amore dei genitori, senza nessuno in grado di indicargli la retta via, eccolo brancolare, inconsapevole (anche se come sapete noi di "Cinespia!" abbiamo sempre creduto nell'eredità genetica e nella predestinazione divina), sulle orme dello sciagurato padre, mentre viene ripreso dal nostro temerario inviato speciale Stenelo Kautzsch con una minicinepresa nascosta nel taschino.



mercoledì 11 giugno 2008

Go ahead, Punk

— Ti sei mai innamorato, Mac?
— No, ho fatto sempre il barista.

Lo sceriffo Wyatt Earp (Henry Fonda) e Mac (J. Farrell MacDonald) in Sfida infernale (My Darling Clementine, 1946) di John Ford.

We're on a mission from God.
Lo ripetono in continuazione le due armi di distruzione di massa “Joliet” Jake (John Belushi) e Elwood Blues (Dan Aykroyd): pretendono di esportare la soul music con i ray-ban in The Blues Brothers (John Landis, 1980).


Avrei dovuto prevederlo. Eppure lo sanno anche i topi: D.I.O. ne pensa sempre una più del diavolo. Mai dargli la destra, si prende tutto il braccio. Domenica scorsa, inauguro in presenza del notaio e delle massime autorità del jet-set culturale l'ultimo gioco in città e permetto a D.I.O. di condividere i lauti compensi previsti concedendogli generosamente di aprire una succursale. E già allora avrei dovuto sospettare il diabolico inganno: infatti, proditoriamente, ecco che in cielo il mio sereno "ultimo gioco" viene turbato da un fulmineo "unico gioco". Non è una menzogna (e neppure un refuso, come sostiene un perfido serafino, io che di mestiere faccio il borrettore di cozze so bene che i refusi non esistono, me l'ha insegnato l'incubo Nivasio Dolcemare). È qualcosa di molto peggio: un vero e proprio oscuramento. Altrimenti, come spiegare l'improvviso dietrofront delle agenzie di marketing, con la rescissione (in meno di quarant'ott'ore!) di decine e decine di mefistofelici contratti pubblicitari che approfittando del più che prevedibile successo planetario del mio gioco dovevano garantirmi l'oro (anche nero, visti i tempi), la mirra (?) e l'incenso (la frivolezza non guasta mai)?
Ma io continuerò la mia ormai donchisciottesca impresa mentre, misero e spodestato, osservo con le lacrime agli occhi lo scempio perpetrato da altri sulla mia opera. Perché a D.I.O. rubarmi gioco e giocatori non è bastato. All'inganno ora ha aggiunto la beffa, e dopo essersi intascato fiches e gettoni ha insozzato il MIO tavolo da gioco, moltiplicandolo e quindi falsificandolo, come fan gli specchi e la copula. Con la patetica scusa dello spin-off, ora prospera alle mie spalle, ridendo di me, e trasforma uno spazio inizialmente riservato esclusivamente a compiti gentlemen top hat, white tie and tails in postribolo, in oscena bisca, in saloon a sud del Picketwire e a ovest di tutto il resto. E noi qui, caro lettore: ormai siamo rimasti solo noi due, gli altri se li è presi tutti lui. Mi dispiace solo per i soldi persi da prestigiosi quotidiani, costretti a mandare precipitosamente al macero i milioni di copie già stampate dove si annunciava in prima pagina che un oscuro blog di cinema aveva superato il numero di visitatori di Beppe Grillo. Ai loro editori vanno tutte le mie scuse più sincere. Sì, lo so. Avrei dovuto prevederlo.

P.S.: Così come avrei dovuto prevedere il virus informatico che D.I.O. ha inoculato in questo post, infettandolo ovunque con maligni rimandi a se stesso. Uno specchio, ancora una volta. Una vera e propria metastasi di link. Non cliccarli, caro lettore, unico amico rimastomi! Resta con me, non tradirmi anche tu! Non lasciarmi solo e abbandonato come Vincent Price ne L'ultimo [e non l'unico] uomo sulla Terra! Come and play with me, Danny! Non cliccare! Non cliccare! Lettore! Lettore? Lettore…
2X2L chiama CQ… 2X2L chiama CQ… New York… Qualcuno mi sente? C’è qualcuno?… 2X2L…



lunedì 9 giugno 2008

Orson Welles — Un fogliettone

II
DOMENICA, 30 OTTOBRE 1938: MAMMA, LI MARZIANI!

A New York sono le otto di sera: tra euforia per la ripresa economica e timori per l’avvenire (la crisi di Monaco risale ad appena trentacinque giorni prima), l’America si prepara per la festa di Halloween. Sulla CBS risuonano le note dell’orchestra di Ramon Raquello, che interpreta La Paloma e La Cumparsita. Alle 20h03 un comunicato interrompe la musica: dall’Osservatorio Mont Jennings di Chicago il professor Farrell ha appena avvistato un’esplosione di gas incandescente proveniente da Marte e diretta verso la Terra. Un fenomeno naturale, assicura l’eminente professore dell’Osservatorio di Princeton, Richard Pierson. L’orchestra riprende a suonare Stardust (“Polvere di stelle”). Poco dopo arriva la notizia di una scossa sismica nei pressi di Princeton, mentre su Marte continuano a verificarsi strane deflagrazioni.
Sono le 20h12: sul canale NBC il ventriloquo Edgar Bergen e la sua marionetta Charlie McCarthy hanno appena concluso la puntata della trasmissione più seguita d’America, The Chase and Sanborn Hour. Gli ascoltatori, all’incirca nove milioni di persone, si sintonizzano su CBS. All’oscuro di tutto, capiscono presto che sta avvenendo qualcosa di assai preoccupante: al posto di Orson Welles e del suo Mercury Theatre, si avvicendano vertiginosamente e nella confusione più totale bollettini sempre più angoscianti. L’inviato speciale Carl Phillips si trova a Grovers Mill, una fattoria sperduta del New Jersey, vicino a Trenton, dove si è appena schiantato un meteorite dal diametro di trenta metri. Il giornalista fatica a descrivere quel che vede, balbetta e incespica sulle parole. Tra brusio del microfono, sirene della polizia, rumori della folla e interviste ai contadini esterrefatti, le notizie sono frammentarie e approssimative.


Ricordano la più celebre (fino allora) diretta radiofonica, quando invece di atterrare dolcemente, il 6 maggio dell’anno prima l’Hindenburg si sfracellò al suolo con tutti i suoi passeggeri. Solo che stavolta non si tratta di uno zeppelin caduto dal cielo, ma di qualcosa venuto dallo spazio profondo, e la tesi dell’asteroide comincia a sembrare inverosimile, dato che l’oggetto è ricoperto di metallo, probabilmente extraterrestre. Persino il professor Pierson non sa più che pesci prendere.
Il sospetto diventa certezza quando la cupola della meteora si apre: alle 20h16 la CBS offre all’America sbigottita il resoconto precisamente commosso del primo incontro con esseri venuti da un altro pianeta. Si tratta di mostri ripugnanti, che l’emozione di Phillips rende ancora più chimerici: grandi come orsi, con tentacoli al posto delle braccia e occhi da rettile. Alle 20h19 Phillips sente un rombo provenire dal cratere. Pochi secondi dopo vede una fiammata inghiottire le prime file di astanti. Tra grida d’orrore, l’incendio divora uomini, alberi, fattorie, automobili… Eroicamente, Phillips descrive tutto, mentre il fuoco si avvicina sempre più al radiocronista. Poi, il silenzio.
Alla CBS un presentatore annuncia che è stato perso il contatto radio con Grovers Mill. Un’interruzione musicale tenta di placare gli animi, ma è ormai chiaro a tutti che qualcosa non va. Infatti, poco dopo il presentatore riprende a parlare: a Grovers Mill sono morte 40 persone.
I marziani stanno invadendo la Terra.


Alle 20h19 il New Jersey è sotto legge marziale. Alle 20h24 viene riesumato il corpo carbonizzato di Phillips. Alle 20h26 gli alieni, con robot a tre gambe alti come grattacieli e muniti di raggio termico e gas letale, controllano la metà dello Stato. Le linee di comunicazione tra la Pennsylvania e l’Atlantico sono impraticabili, le ferrovie tra New York e Philadelphia distrutte. Le autostrade sono intasate dalla gente in fuga, e la polizia e i riservisti non riescono a contenere il panico. Alle 20h27, invece di rassicurare gli americani, il comunicato del Ministero degli Interno accresce l’allarme. Intanto i cilindri spaziali continuano a precipitare sugli Stati Uniti: prima in Virginia (20h29), poi ancora nel New Jersey. Sulle Watchung Mountains, alle 20h31 inizia la battaglia decisiva tra esercito e marziani. In meno di quattro minuti l’artiglieria e l’aviazione americana vengono sbaragliati. Alle 20h36 arriva l’ordine di sgomberare il New Jersey. Alle 20h37 i mostri sono alle porte di New York. Con la voce rotta dall’emozione, un anonimo cronista racconta quanto sta succedendo, in quelli che forse saranno gli ultimi minuti della storia della radio. Dal tetto dell’emittente, vede salpare navi gremite di profughi, ascolta l’inno liturgico salire dalla cattedrale mentre, all’orizzonte, cinque robot attraversano l’Hudson come fosse un ruscello. Migliaia di persone si buttano nell’East River. Scene analoghe avvengono a Chicago, Saint Louis, Buffalo… I fumi tossici si avvicinano al cronista: cento metri… cinquanta metri… Silenzio.
Un radioamatore tossicchia il suo vano appello: “2X2L chiama CQ… 2X2L chiama CQ… New York… Qualcuno mi sente? C’è qualcuno?… 2X2L…”


Alle 20h41, la CBS decise che era ora di finirla. Un presentatore annunciò, con perfetta sobrietà: “State ascoltando la CBS che vi presenta Orson Welles e il Mercury Theatre on the Air in un adattamento originale della Guerra dei mondi di H.G. Wells”. Presa in corso dalla maggior parte degli ascoltatori, la trasmissione aveva gettato nel panico circa 1.750.000 persone. Erano fuggite di casa seminude, a piedi o in automobile, avevano intasato i centralini dei commissariati, cercato rifugio in cantina, nelle chiese, nelle foreste. Fu al contempo il più grande scherzo del secolo e il fenomeno che rivelò al mondo il potere delle comunicazioni di massa, di cui La guerra dei mondi divenne al contempo l’emblema e la critica definitivi. E pensare che ancora pochi minuti prima di andare in onda, Welles, John Houseman e il Mercury Theatre erano convinti che la sceneggiatura — improvvisata a partire da un brogliaccio di Howard Koch — fosse pessima (fino all’ultimo momento si chiesero infatti se non fosse meglio sostituirla con Lorna Doone). Per salvare la faccia, si eran detti che presentare il tutto come un concitato radiogiornale, ispirandosi al resoconto della catastrofe dell’Hindenburg, fosse la soluzione più onorevole.


Alla fine della trasmissione, l’America ascoltò una voce dall’educata ironia (la stessa di Pierson, del comandante Smith, del capitano Lansing, di un ufficiale d’artiglieria pesante, di un operatore radio e del cronista new-yorchese) annunciare: “Signore e signori, qui parla Orson Welles, che abbandona le vesti del suo personaggio per assicurarvi che La guerra dei mondi non ha altro significato che il divertimento che voleva essere. Il Mercury Theatre, a suo radiofonico modo, si è coperto con un lenzuolo per sbucare da un cespuglio e dire BUH!. […] È così che abbiamo annientato il mondo davanti alle vostre orecchie, e distrutto da cima a fondo la CBS. Spero tirerete un sospiro di sollievo scoprendo che stavamo scherzando, e che ovviamente le istituzioni sono sempre funzionanti. Quindi, arrivederci a tutti, e non dimenticate, per piacere, per i prossimi giorni, la terribile lezione di stasera. L’invasore orribile, incandescente, globuloso del vostro salotto è l’abitante di una zucca vuota. Se suonano alla vostra porta e non c’è nessuno, non è un Marziano. È Halloween”.


Già allora, Welles era un prestigiatore professionista, e durante la guerra divertì i soldati americani tagliando in due Marlene Dietrich; inventò molti trucchi, alcuni dei quali tutt’ora imitati dagli illusionisti. Ma quella del 30 ottobre 1938 rimase, è indubbio, la sua migliore falsificazione, e la più celebre. Quel giorno l’America scoprì di aver dato i natali a un genio. Orson Welles aveva appena 23 anni. Quando il 7 dicembre 1941 la radio annunciò che l’aviazione giapponese aveva distrutto la base di Pearl Harbor, molti credettero a una sua ennesima burla.
Welles non raggiunse mai più un simile livello di popolarità, ma all’epoca non poteva immaginare che con l’arrivo a Hollywood, la sua carriera di protagonista della cultura avrebbe iniziato a declinare. Nei quarant’anni seguenti, il credito acquistato in meno di un decennio si logorò poco a poco. Una traversata del deserto senza fine, durante la quale Welles scoprirà che la sua vera passione era il cinema e si imporrà contro tutti, compreso se stesso, come il più grande cineasta di tutti i tempi. (CONTINUA…)

domenica 8 giugno 2008

L'ultimo gioco in città (LE SCOMMESSE SONO CHIUSE)

I — THE INCONSTANT GARDENER

Sono fiero di annunciare l'inaugurazione di un nuovo gioco. È bello e dura poco.
Il concetto non è originalissimo, ma del resto tutto è stato già scritto, ormai i giochi sono fatti (e rien va, come diceva lo spiantato gambler di Saint-Vincent): si tratta di riconoscere il titolo del film dal video che presentiamo (in altri casi potrà trattarsi di un pezzo sonoro, di un frammento di dialogo, di una singola immagine o addirittura del sadico dettaglio di un fotogramma).
Tempo: una settimana, quando verrà presentato un nuovo quiz (nel periodo estivo la regolarità non è garantita, perché all play and no beach umbrella makes Alt sunburned). Il primo a indovinare verrà dichiarato vincitore, e gli ultimi saranno gli ultimi. Non riceverà nessun premio, e a volte neppure i complimenti della giuria. Dovrà pazientare. Alla fine dell'anno, verranno conteggiate le vittorie settimanali. Colui che avrà accumulato il maggior numero di vittorie verrà dichiarato "vincitore dell'anno", perché la matematica non è un'opinione, e gli altri saranno gli altri. Il vincitore dell'anno sarà esposto al pubblico il giorno dell'epifania, con le calze tutte rotte e il cappello alla romana.

Astenersi cinetecari bolognesi e furbetti del cinemino; benvenuti rabbiosi cinofili e lucciole di Pomezia.
Il regolamento del gioco è depositato presso il notaio e si svolge anche su un altro tavolo.


ATTENZIONE: LA PARTITA SI È CONCLUSA SULL'ALTRO TAVOLO DA GIOCO ALLE 15.24.
LA VINCITRICE: ADLIMINA, CHE COME SUO SOLITO QUI LO NEGA E LÌ LO DICE.

L'ULTIMO GIOCO IN CITTÀ.
GRADUATORIA
adlimina: 1 punto.
LA PROSSIMA SETTIMANA IL GIOCO SI FARÀ MOLTO PIÙ DURO, MA LA SOLUZIONE VARRÀ DUE PUNTI.

sabato 7 giugno 2008

Ciao ciao maestro: Oggi l'Italia fa ancora più schifo


DINO RISI, 23/12/1916 — 07/06/2008


giovedì 5 giugno 2008

Penélope, detta Pe, a Calcutta



Da Roberto Bolaño, “I miti di Chtulhu”, ne Il gaucho insostenibile (traduzione di Maria Nicola), Sellerio, Palermo 2006, pp. 176-177:


La vicenda di Penélope Cruz in India è all’altezza dei nostri più insigni prosatori. Penélope, detta Pe, arriva in India. Visto che le piace il colore locale, che le piace l’autenticità, va a mangiare in uno dei peggiori ristoranti di Calcutta o di Bombay. Così racconta Pe. Uno dei peggiori o uno di quelli che costano meno o uno dei più popolari. Sulla porta vede un bambino affamato che a sua volta non le toglie gli occhi di dosso. Pe si alza ed esce e chiede al bambino cosa vuole. Il bambino le chiede se può avere un bicchiere di latte. Strano, perché Pe non sta bevendo latte. In ogni caso la nostra attrice si fa dare un bicchiere di latte e lo porta al bambino, che rimane sulla porta. Subito il bambino beve il bicchiere di latte sotto lo sguardo attento di Pe. Quando ha finito, racconta Pe, lo sguardo di gratitudine e di felicità del bambino le fa pensare alla quantità di cose che lei possiede e di cui non ha bisogno, anche se su questo Pe si sbaglia, perché tutto, assolutamente tutto quel che possiede, le è indispensabile. Dopo qualche giorno Pe ha una lunga conversazione filosofica ma anche di ordine pratico con madre Teresa di Calcutta. A un certo punto Pe le racconta questa storia. Parla del necessario e del superfluo, dell’essere e del non essere, dell’essere in relazione a e del non essere in relazione a, a cosa? e come? in fin dei conti cos’è questa storia dell’essere? essere se stessi? Pe si confonde. Madre Teresa, nel frattempo, non la smette di aggirarsi come una donnola reumatica per la stanza o sotto il portico che le ripara entrambe, mentre il sole di Calcutta, sole balsamico e insieme sole dei morti viventi, sparge i suoi raggi estremi calamitato già dal ponente. Ecco, ecco, dice madre Teresa di Calcutta, e poi mormora una cosa che Pe non riesce a capire. Cosa? dice Pe in inglese. Sii te stessa. Non preoccuparti di sistemare il mondo, dice madre Teresa, aiuta, aiuta, aiutane uno, porgi un bicchiere di latte a uno soltanto e questo basterà, adotta un bambino, soltanto uno, e questo basterà, dice madre Teresa, in italiano e con evidente malumore. Al cader della sera Pe torna in albergo. Si fa una doccia, si cambia d’abito, si mette qualche goccia di profumo ma non riesce a togliersi dalla testa le parole di madre Teresa di Calcutta. Al momento del dolce, di colpo, l’illuminazione. Tutto sta nel privarsi di un pizzico microscopico dei suoi risparmi. Tutto sta nel non tormentarsi. Se dai a un bambino indiano dodicimila pesetas all’anno starai già facendo qualcosa. Non tormentarti e non farti problemi di coscienza. Non fumare, mangia frutta secca e non farti problemi di coscienza… Il risparmio e il bene sono indissolubilmente uniti.

Rimangono alcuni enigmi a fluttuare come ectoplasmi nell’aria. Se Pe aveva mangiato in un ristorante che costava così poco, com’è che non le è venuta una gastroenterite? E perché Pe, che i soldi li ha, andava a mangiare precisamente in un ristorante di quel genere? Per risparmiare?


Repetita iuvant: Roberto Bolaño, “I miti di Chtulhu”, ne Il gaucho insostenibile (traduzione di Maria Nicola), Sellerio, Palermo 2006, pp. 176-177:

lunedì 2 giugno 2008

Crossover: Un ricordo della casa gialla

Nazista a me? Io sono nato il primo maggio, il giorno della festa dei lavoratori e al nonno di mia moglie, nel ventennio, i fascisti fecero chiudere la panetteria al Pigneto perché non aveva preso la tessera.
Un delinquente comune, ovvero un eroe dei nostri tempi, al quale il 29 maggio 2008 il quotidiano “la Repubblica” concede l’onore della prima pagina, lasciandolo parlare a ruota libera per più di dodicimila battute.

Pulendo la cucina ho notato che è inutile alzare certi vasi che stanno lì sempre fermi. Spolvera solo attorno al perimetro della base: sotto non c’è polvere.
In presenza degli avidi eredi, il notaio (Simon Kautzsch) apre il testamento e scopre che lo zio non ha scritto altro in Little Blues (Paul Gachet, 1978).

Al mio paese chiamavano casa gialla la casa dove si custodivano i detenuti. A volte, quando da bambini giocavamo per strada, lanciavamo sguardi furtivi attraverso le grandi finestre oscure e silenziose e con una stretta al cuore balbettavamo: “Poverini!…”.
Didascalia iniziale di Ricordi della casa gialla (João César Monteiro, 1989).



Mentre tu sei andata al cinema e io son rimasto qua come un fesso ad annoiarmi, tra i francesi che s’incazzano en attendant Bartali, a volte afferro un giornale che svolazza. Convinto di trovarvi, finalmente, la notizia vera, in caratteri cubitali:


O, quantomeno, un utile commento alla notizia:


Ma siccome considerano che le isotere e le isoterme fanno il proprio dovere, i giornali preferiscono tenere gli occhi chiusi, e diffondere opinioni. Se le opinioni finiscono in prima pagina, allora non sono più opinioni: sono “editoriali”.
Così, qualche giorno fa, in mancanza di vere notizie, ho letto un editoriale. Lo aveva scritto una firma autorevole, su un prestigioso quotidiano. L’autorevolezza e il prestigio erano ribaditi dal fatto che l’editoriale occupava lo spazio di una colonna e mezzo. Dunque era una volta e mezzo autorevole, e una volta e mezzo prestigioso. Non parlava di cadaveri redivivi (“Quando i morti camminano, señores, dobbiamo smettere di uccidere, o perderemo la guerra” diceva un prete portoricano in Zombi) e della conseguente fortuna di essere vivi, come ho già detto. Ragionava su certi delitti commessi al Pigneto, una periferia di Roma dove quasi mezzo secolo fa Vittorio Cataldi detto “Accattone” rifletteva: “Eppure che è la fame? Un vizio! È tutta un’impressione! Ah, se nun c’avessero abituati a magna’, da regazzini…”. Il protagonista di questi delitti è stato scoperto, e si è anche scoperto che aveva un tatuaggio di Che Guevara sul braccio. (Premetto che di Che Guevara non m’importa un fico secco, le quattro ore che Soderbergh gli ha dedicato me le perderò volentieri, anche perché avrei preferito che il film lo facesse Terrence Malick, come pare fosse inizialmente previsto.) Un tempo, neanche troppo remoto (o forse sì), il fatto che un delinquente sfoggiasse un tatuaggio del Che sarebbe finito seduta stante nella rubrica “ecchissenefrega” del giornale satirico “Cuore”. Ma fortunatamente oggi la satira non esiste praticamente più, così possiamo finalmente leggere giornali seri. E infatti nessun giornale ha resistito alla tentazione di commentare a iosa l’irrilevante aneddoto del tatuaggio. Perché son proprio gli aneddoti irrilevanti che permettono di cogliere lo Zeitgeist, o almeno così pare. E quindi l’editoriale incipitava:

Il tatuaggio che immortala il «Che» sul braccio dell’uomo che ha guidato la spedizione squadristica del Pigneto celebra a suo modo l’anniversario del ’68 e chiude un’epoca trasformando definitivamente la faccia del comandante Guevara in icona post-icona, come un adesivo, un marchio vuoto, un brand di moda, potrebbe essere l’aquilotto dell’emporio Armani o la virgola della Nike. È per questo che la lunga confessione consegnata dal picchiatore a Carlo Bonini di Repubblica dovrebbe segnare anche la fine dell’ossessione compulsiva di etichettare politicamente le emergenze sociali: la sicurezza è un sentimento di destra, le ronde sono fasciste, i raid sono nazisti.
Un impulso che risponde al bisogno rassicurante di tener viva la cornice ideologica del Novecento come chiave di interpretazione di tutto.
Un vizio italiano [come la fame? n.d.r.], ma non solo. Il Times di Londra ieri leggeva la faccenda romana in chiave di xenofobia denunciando il rischio razzismo in Italia; il Financial Times rilanciava l’allerta per i rom. Vero, certo. Ma pure questo è un automatismo, anch’esso a suo modo ideologico, che non basta a spiegare quel che bolle nel calderone italiano.


Negare la possibilità di interpretare la realtà attraverso “cornici ideologiche” vecchie non è un’idea nuova. È vecchia almeno quanto le stesse “cornici ideologiche” e più di cinquant'anni fa Roland Barthes l'aveva già inserita tra i Miti d'oggi (cfr. il capitolo intitolato "La critica né-né"). Ma almeno consola, per un po'. È un sollievo, ad esempio, sapere che il braccio tatuato che ti accoltella non è mosso da pregiudizi ideologici ammuffiti, che quando senti la lama entrarti nella gola partecipi in qualche modo del nuovo che avanza (“Come un cane!” disse, era come se la modernità dovesse sopravvivergli).
Ma non facciamo gli schizzinosi: tanto più che l’inizio dell’editoriale non suona solo come una campana a morto (logico, dato che the dead are walking), ma anche come una promessa, per chi trova sempre più difficile leggere la realtà, globale o aneddotica che sia. Dopo aver fatto tabula rasa di desueti preconcetti e griglie interpretative inefficaci (per capire lo spirito dei tempi non ci si può più fidare di nulla e di nessuno, cari amici: neppure dello spiritoso “Times”), si profila la speranza che l’editorialista proponga o comunque disegni i contorni di una nuova cornice di lettura, finalmente liberata da qualsiasi ideologia, ma quantomeno utile a capire come e dove sta andando il mondo (o, nel nostro piccolo, l’Italia).
Al centro dell’editoriale troneggiano, giustamente, i fatti, cioè le parole: brani dell’intervista al delinquente, dichiarazioni di capi della polizia, accenni di considerazioni varie su insicurezza reale e/o percepita. Alla fine, l’editoriale conclude, rompendo gli indugi, e noi leggiamo, sperando come accattoni di veder placata la nostra fame di capire:

La griglia destra-sinistra non tiene più. Nemmeno a Roma, dove da quando è sindaco Alemanno (salutato da non poche «braccia tese» al suo arrivo in Campidoglio), è come se fosse cresciuta un’equivoca attesa. L’ex sindaco Veltroni insiste sul clima di intolleranza. L’uomo del Pigneto, con o senza tatuaggio, racconta un’altra Italia che sembra sfuggire a tutti e due. E forse anche a noi.

Un supplizio di Tantalo, insomma. Tu credi di aver capito come stanno le cose, eh? Sì, ciao core: il tuo modo di pensare è vecchio. È per questo che la realtà ti sfugge. Ora ti dico io qual è lo Stand der Dinge — o almeno, dato che il mio mestiere è quello dell’opinion maker, te ne fornisco l’opinione (nel senso in cui la intendeva Karl Kraus: ragazzi, come mi sento mitteleuropeo e novecentesco, stamattina). Anzi no, ho cambiato idea: non te lo dico perché non lo so. Tiè.
Oppure la spiegazione è un’altra: l’editorialista un’opinione ce l’ha eccome, e se ce la comunicasse la salvezza sarebbe a portata di mano. Ma lui, geloso e birichino, se la tiene tutta per sé (magari l’ha consegnata al notaio, racchiusa in una busta sigillata con la ceralacca: forse neppure lui è immune da vezzi rétro). Un po’ come Nanni Moretti, quando in Bianca trova finalmente il coraggio di abbordare Laura Morante e, con un sacchetto di dolcetti in mano: “Ne vuoi uno?” per poi aggiungere subito, senza lasciarle il tempo di fiatare: “Eh, ma sono tutti per me: un etto sono solo dodici. Finiscono prestissimo…”.




Ci sono editoriali che lasciano imbambolati, come se ci si trovasse davanti a un quadrato magico di Dürer, ma con tutti i numeri buttati lì alla rinfusa da un seguace di Duchamp o da un Dio burlone. Tuttavia non disperare, malinconico amico: lassù qualcuno ti ama. Infatti, se la lettura dei giornali non rischiara la bile, dal cielo bas e lourd dei blog trapela un raggio di sole nero. Sì, il vero D.I.O. non ti ha abbandonato, egli pensa a te e ti invita a sperimentare una nuova linea di farmaci (a tuo rischio e pericolo, s’intende). Vale la pena provare, anche se non dovesse funzionare. Anzi, soprattutto se non dovesse funzionare: D.I.O. ha capito benissimo che dalla malinconia non si guarisce, che la letteratura, il cinema o lo studio non consolano (non è il loro scopo), che la bellezza non lenisce un bel nulla, perché la vera bellezza ci trafigge e a volte ci schiaccia. Nel tuo stato, e in questo Stato (il rapporto conflittuale con la polis è alla base del concetto classico di malinconia: cfr. il Democrito dello pseudo-Ippocrate) la malinconia puoi soltanto coltivarla (come si coltivano i fiori, e i vizi, anche quelli brutti come la fame), e di tanto in tanto farla uscire di casa (magari “downtown” con Frank Sinatra), così, giusto per farle prendere una boccata d’ossigeno, che respiri un po’, povera creatura. La classica “ora d’aria”, secondo la terminologia penitenziaria, da passare camminando sulle orme di João Cesar Monteiro (un altro G.O.D.: infatti nei suoi film migliori interpreta un personaggio chiamato João de Deus), quando in Ricordi della casa gialla parla di dar fiato alla dignità:
“La signorina Julieta è scappata con un fagottista dell’orchestra. Era fatale: quella è una famiglia piena di fiato. Doña Violeta, sua madre, si è rassegnata. Uno di questi giorni perdonerà loro con una scarica di peti. Un po’ di dignità non ha mai fatto male a nessuno.”
E quindi, amico atrabiliare, non restare sempre qui a leggere le mie farneticazioni! Esci dalla saudade, riscatta l’acedia, clicca altrove e prenditi un gachet! Studia con particolare attenzione le due tappe essenziali della terapia, ossia il “Perimetralismo” e la “Blackbox” e non tornare finché non le avrai assimilate. Tranquillo, io intanto son qua che ti aspetto, te e Bartali, non mi muovo: come un masso. (Però poi torna a trovarmi, eh? Non ho mica finito…)



Ma come, sei ancora qui? Evvai, ti dico!



Maltornato, quindi. Questa faccenda del perimetralismo meriterebbe una biblioteca di Babele, uno non sa bene da dove cominciare: forse girando intorno al concetto? Col rischio di perdere presto l’equilibrio, magari? In questo caso mi permetto di suggerire la terapia di mio nonno: si fece tutto il ventennio (quello della prima metà del secolo scorso, non quello in cui viviamo oggi) tra galera e villeggiatura nelle isole. In privato non se ne vantava mai, ma se stavi bene attento, quarant’anni dopo potevi ancora individuarne le tracce nei riflessi psico-motori. Quando sei in cella (ovvero, quando più o meno tuo malgrado dal perimetralismo della blackbox ci piombi dentro, nella stessa blackbox), tre metri per tre, uno dei problemi che ti tocca affrontare è il deperimento fisico per scarsità di moto. Se non vuoi ridurti allo stato vegetale (tipo l’attuale ministro delle pari opportunità), ti conviene camminare a lungo. Ma in tre metri per tre, se li fai girando sempre nello stesso senso, dopo due giri le vertigini ti fanno cascar per terra (qualsiasi riferimento ai girotondi è assolutamente deliberato) e la ginnastica si riduce a pochi inconcludenti secondi giornalieri. Allora si procede lungo la diagonale del quadrato (o ring, se buttiamo la blackbox sullo shadow-boxing di Jake La Motta o degli astronauti kubrickiani), compiendo una serie di otto. Quando appunto quarant’anni dopo mio nonno si infervorava durante una discussione, nel ricordo lo vedo ancora alzarsi dal tavolo e iniziare a camminare. E, continuando a parlare, inconsciamente i suoi passi si mettevano a disegnare una serie indefinita di otto. Il salone era abbastanza grande, ma se ti limitavi a misurare l’otto in questione come diagonale di un invisibile quadrato magico, il risultato che ottenevi era esattamente un’area di tre metri per tre.





P.S.: Dato che forse non mastichi il portoghese e non leggi il francese come io non parlo il tedesco, scusami pardòn:
Lívio (Luís Miguel Cintra): L'unica cosa che conta è che tu impari ad amministrare il tuo stato di semplicità.
João de Deus (João César Monteiro): E tu? Resti qui?
Lívio: Io ho buone speranze di guarigione. Sono un caso clinico, oltretutto benigno. Per te è diverso: non c'è nessuna speranza, vista la malattia che hai; e quello che è, è.
João de Deus: Dubito che mi lascino uscire così, di colpo.
Lívio: Hai già parlato col direttore?
João de Deus: Ci siamo scambiati vaghe impressioni. Non avevo niente da dirgli. E viceversa, suppongo.
Lívio: Per uscire di qui, non preoccuparti. Me ne occupo io. Il direttore è uno dei nostri…
João de Deus: Vado a pensarci su.
(João de Deus fa la sua corsetta, perimetrando il cortile della casa gialla)
João de Deus: È deciso. Spalanchiamo i battenti del sacro portone.