martedì 1 luglio 2014

Gufi

Perché il gufo gufò? Perché il picchio picchiò.
Throper Fallcaster, collezionista di freddure sugli uccelli e 54° caso esaminato in The Falls (Peter Greenaway, 1980).

Da sempre, appena sento la parola "gufo", la prima cosa a cui penso è un racconto di Ambrose Bierce, An Occurrence at Owl Creek Bridge, che lessi da bambino. Fu pubblicato nel 1890 sul "San Francisco Examiner". Un anno dopo Bierce lo inserì nella raccolta Tales of Soldiers and Civilians. Il titolo riporta chiaramente alla Guerra civile americana. Ma nel racconto che mi colpì (questo blog racconta esclusivamente la storia di un uomo "marqué par une image d'enfance") il contesto storico è irrilevante. Anche i gufi c'entrano poco. Si limitano a dare il nome a un ponte, dove inizia e finisce la storia. Dove finisce, soprattutto. Anche se in realtà finisce dove inizia. Anche se in realtà finisce come inizia.
Sono appena dieci cartelle, ma a causa della trovata finale ha segnato per sempre la storia della narrativa mondiale, e in particolare la narrazione fantastica. Quando incombeva plumbea "l'egemonia culturale della sinistra" e "i professoroni" terrorizzavano la nazione, l'italiano disponeva di decine di migliaia di parole, e in quella babele poteva persino permettersi di ospitare vocaboli repellenti. Per il racconto di Bierce, possiamo star certi che sarebbe stato usato il mostruoso aggettivo "seminale". Oggi, fortunatamente, quell'epoca cupa si è conclusa, e con le nostre 500 parole non riusciremmo neppure a raccontare un fine settimana di Maigret, ma almeno "famo a capirci" e diciamo che il racconto di Bierce è "’na robba".
In letteratura, la stoccata finale delle varianti di Owl Creek Bridge la dà Borges nel suo più bel racconto, El Sur. Fu pubblicato assieme a due altri testi nella seconda edizione di Finzioni. Il colpo di genio di El Sur è l'azzardo supremo: eliminare del tutto la trovata finale per disseminarla lungo tutto il testo, in tal modo che solo il lettore più malizioso potrà sospettare la soluzione (e, più che sospettarla, sentirla: sentirse en muerte, come titolava il primo esperimento narrativo di Borges, ispirato al medesimo incidente autobiografico: un incidente "seminale"). È un'operazione squisitamente letteraria. Molti anni dopo, chiudendo il cerchio, Roberto Bolaño trasformerà il tutto in splendido e mediocre sberleffo, con El gaucho insufrible. Il pastiche di Bolaño elimina il colpo di scena, semplicemente. Non lo trovi né alla fine del racconto, né all'inizio, né durante. È bellissimo.
Al cinema i nipotini di Bierce riempirebbero un orfanotrofio dickensiano (per non parlare della televisione: quel racconto è praticamente il palinsesto di qualsiasi episodio di The Twilight Zone). Il mio preferito è Carnival of Souls di Harold Arnold "Herk" Harvey (dopo quel film, di "Herk" credo non si seppe più nulla). E non solo perché assieme a L'ultimo uomo della Terra di Ubaldo Ragona ispirò a Romero La notte dei morti viventi. Ma anche per quello. Il film più famoso è invece Il sesto senso di M. Night Shyamalan, che a me però non ha mai convinto perché non c'è colpo di scena, per quanto sorprendente (e dal 1890 quel colpo di scena non sorprende più), che giustifichi la tortura di un racconto psicologico. Shyamalan lo ha capito, e i film che ha fatto in seguito mi piacciono moltissimo.
Dal racconto di Bierce è stato girato un cortometraggio, La Rivière du hibou.



Subito dopo Bierce, quando sento la parola "gufo" penso a John Travolta, nel film in cui scoprii che John Travolta era un attore fenomenale. Blow Out è anche il film che preferisco di Brian De Palma. A ripeterlo rapidamente, diventa uno scioglilingua e sembra quasi di sentire il gufo gufare: blow out blow out blowlout.
La prima volta che Travolta raccoglie i suoi miserabili effetti sonori sul ponte dove inizia la storia (ma non finisce, anche se sempre lì si torna; mentre il film, che racconta un'altra storia, comincia prima e quindi finisce dove comincia), il gufo bubola e sembra guardarlo fisso negli occhi. Però quando la raccolta viene ricostituita mentalmente in studio, l'immagine si divide in due, la memoria si sdoppia razionalmente e schizofrenicamente, con il senno e la paranoia di poi: Travolta e il gufo guardano nella medesima direzione: verso l'incidente (o occurrence). Si chiama split screen, a De Palma piace molto perché a lui piacciono le cose più brutte, De Palma è lo spazzino del cine, se fosse italiano sarebbe capace di fare un film intitolato "Il bubolio seminale del gufo".
Naturalmente quell'immagine non l'hai più dimenticata.


Ma alla fine il gufo gufò gufò gufò.

3 commenti:

arco ha detto...

Grazie Sten per avermi svelato il seme di questo schema classico incontrato più e più volte. Seguirò volentieri il resto del filo, da Borges a Bolaño, passando per Carnival Of Souls, sperando di diventare così un po' meno ignorante.

E' proprio vero quello che diceva quel simpatico signore: i blog sono vivi e noi siamo morti.

Stenelo ha detto...

"Ho appena finito "L'occhio nel cielo" (Eye in the Sky) di Philip K. Dick. Una discreta porcheria. Trama sciocchina, colpi di scena prevedibili, temi affrontati in modo superficiale. Il miglior libro di Dick non è buono nemmeno come quarta di copertina per la lista della spesa di Fredric Brown. Poi non dico che faccia tutto schifo ma ci sono autori SF con produzioni di qualità molto più alta e assai più costanti."

Stenelo ha detto...

Mi piace soprattutto l'idea della "qualità" misurabile in metri. Ma anche la "costanza" non è male. Flaubert ha scritto "Le Candidat", quindi Flaubert fa cacare.